2 febbraio 2023
A osservare il confronto in atto nel Pd tra i candidati alla segreteria, c’è da chiedersi dove vada il Pd. Un nuovo segretario/a dovrebbe voler dire un rinnovato gruppo dirigente. Invece, se è normale che chi era minoranza nel partito ora punti a tornare maggioranza (Andrea Carugati), potrebbe darsi che a riprendere le redini saranno proprio coloro che più hanno contribuito alla perdita di consensi attuale. Dal 2008 al 2022 il Pd ha più che dimezzato i suoi voti, perdendone 6,6 milioni (dei 12 che aveva): con Bersani nel 2013 ne perse già 3,4; gli subentrò Renzi, Bersani se ne andò e il Pd ne perse altri 2,2 nel 2018. E Zingaretti e poi Letta non hanno certo frenato l’emorragia.
Le contrapposizioni interne tra “anime” nascondono il vero dramma di questo partito: che dovrebbe essere un intero ceto dirigente a farsi da parte, ammettendo di aver fallito. E invece no: sono tutti in gara a farsi avanti, dietro al ruvido Bonaccini che «non sa che farsene di una sinistra minoritaria». Come se la sua stessa candidatura non indicasse che quella sinistra diverrà ancor più minore. Ma un partito che non riflette sugli errori fatti e sulla strada da intraprendere è destinato a sciogliersi. Ammaliato com’era stato dalla «politica liquida» che si doveva confare a una «società liquida», sarà il partito a liquefarsi.
Encomiabili appaiono gli sforzi di Elly Schlein e Gianni Cuperlo: la prima, puntando sulla sua “novità”, il secondo su un messaggio più “di sinistra” che vada a riscaldare il cuore dei vecchi militanti. Ma la contesa appare segnata, per due ragioni: perché il gruppo dirigente che ha guidato il partito in questi anni, a livello centrale e locale, è comunque maggioritario; perché lo stesso messaggio dei due contendenti “outsider” è insufficiente. Per riprendersi – se non “rifondarsi” – il Pd dovrebbe chiedersi perché ha perduto consensi e dove sono andati, chi vuole rappresentare, quale idea di paese e del mondo vuole proporre che sia diversa da quella che aveva. Dietro le parole di Elly e Gianni, non sembra esserci analisi critica dello stato attuale delle cose del mondo.
Tanto nel “programma” di Schlein, quanto in quello di Cuperlo, si enumerano i problemi, si dice che il mondo è “guasto” e malato, ma non si dice perché. E senza una spiegazione, dire cosa va intaccato per cambiare rotta è sterile. Perché è l’impianto concettuale e ideologico che andrebbe cambiato, ché esso si è dimostrato inadatto e finanche lontano da ciò che una forza di sinistra dovrebbe perseguire. Mancando l’analisi, di conseguenza, le soluzioni proposte paiono vane.
Il substrato neoliberista, anche nella «promessa democratica» di Cuperlo, rimane. Non c’è critica del capitalismo: non basta dire che questo «sorveglia vite e consumi» o che «il clima è stato alterato dall’essere umano» perché non è stato un generico “essere umano” ad alterarlo, ma il modello di sviluppo capitalistico, che è predatorio della natura e dei popoli che sono stati sottomessi e sfruttati. Per affermare, addirittura, che «il capitalismo degli ultimi quarant’anni ha tolto al mercato la capacità di dare valore alle cose»: ma come? È forse il mercato che dà valore alle cose? Il mercato non è etico, per definizione, persegue solo il profitto. Certo, si dice, la politica deve intervenire, ma che ciò «non significhi più Stato» (non sia mai!). Se ci vuole più democrazia, non è per dare voce a chi è escluso, ma «per rispondere alla sfida dei monopoli tecnologici». Il linguaggio liberal persiste.
Non viene ricordato – nonostante si ribadisca l’importanza della “memoria” – come sia stato il movimento operaio con le sue lotte a tenere a freno lo strapotere del capitale, negli anni ‘60 e ‘70. E, però, dopo aver ribadito che comunque la società è “liquida” – altro mantra liberal – si ammette che le classi esistono ancora, ma sono più frammentate, e che l’ascensore sociale non funziona più perché «è lo Stato che non funziona». No! L’ascensore sociale non funziona perché l’economia ha preso il sopravvento sulla politica e il capitalismo è intrinsecamente anti-egualitario (vedi Piketty). In una società com’è quella italiana ove classismo, corporativismo, familismo ed esclusione sono la regola.
Il Pd, da parte sua, ha poche colpe (sic). «La democrazia è più debole», si dice, «perché ha strumenti fragili per ridistribuire risorse». O è forse perché si è lasciata l’economia prevalere sulla politica e sono in tanti a non crederci più? Ed è stato il “sistema” «a indebolire la capacità della sinistra di rappresentare parti intere di società» (o è stata la sinistra a rinunciare?). La sinistra ha creduto nella post-modernità – viviamo nel presente, le ideologie sono superate – per accorgersi ora che la destra un’ideologia ce l’ha e un’ideologia, una visione del mondo a venire, ci vuole. Invece, non c’è alcuna analisi delle cause (non basta dire vogliamo un lavoro giusto, un fisco equo), obiettivi generici (basta disuguaglianze), né critica del capitalismo, solo un inane «tenere insieme le ragioni della produzione con quelle della vita e della dignità».
Così, il Pd va all’elezione della sua figura di vertice senza cambiare nulla, al di là dei politicismi. E la sinistra italiana si troverà così più orfana e con ben poche prospettive di risollevarsi a breve finché gli altri che a sinistra ancora indugiano non usciranno dal settarismo per proporre, davvero, una “cosa” all’altezza dei tempi.
inviato al manifesto, 2 febbraio 2023