23 novembre 2022
Mentre assistiamo quasi «in diretta» allo psicodramma che si svolge in casa Pd, non possiamo non rattristarci di fronte allo spettacolo altrettanto mesto che ha luogo fuori da quella casa, per i suoi toni beckettiani se non alla Ionesco. Personaggi muti recitano a soggetto, afoni. Nessuno ode, perché non si profferisce verbo. La classe dirigente che mancò, questo sarà il responso degli storici nello studiare dov’è finita la sinistra, solo un secolo dopo quella partenogenesi catartica che era stata spinta dal mito propulsivo della rivoluzione bolscevica.
Non c’era solo un’idea, c’era un ideale, una meta. C’era un vasto movimento di popolo che la spingeva, perché quell’idea ne raccoglieva le motivazioni. Non c’è mai stato nulla di dato – una volta per sempre – nel «rappresentare» operai, braccianti, proletari. C’era invece un progetto, il disegno di un sistema di relazioni sociali e produttive differenti, un’altra società, un «ordine nuovo».
Si voleva andare verso la trasformazione, il superamento del sistema, perché basato su disuguaglianze profonde, sullo sfruttamento, sulla povertà di milioni a fronte della ricchezza di pochi. Poi arrivò il capitalismo democratico sostenuto dalla democrazia liberale, che garantiva welfare e una promessa di emancipazione per le masse. Senza abolire né proprietà privata né profitti, consentendo una certa redistribuzione. Certo, lo scopo era l’aumento della spesa, il consumismo di massa, il produttivismo, per una continua accumulazione del capitale. Ma il riequilibrio era consentito, permettendo al sistema di auto-perpetrarsi.
Poi, operai, proletari e ceti popolari sono cambiati e aumentando il loro reddito si sono tutti fatti «classe media», questo parve per qualche tempo. Tanto da consentire al capitale di rifarsi il trucco e ripartire in quarta con l’aprirsi delle frontiere e delle praterie lasciate libere per la «globalizzazione».
Crollata l’Unione Sovietica – anzi, già prima, per essere più realisti del re – si pensò, a ovest, che si potesse buttare a mare il comunismo, l’ideale della trasformazione del sistema e tutto ciò che aveva tenuto insieme l’idea di «sinistra» del Novecento. Il capitalismo cum democrazia cum welfare non era forse un sistema quasi perfetto? Bastava fare sì che lo Stato mantenesse un occhio benevolo su vizi ed eccessi, il resto sarebbe filato liscio, i paesi poveri del mondo ci avrebbero seguito e noi avremmo vinto la scommessa.
Senonché, le cose sono andate diversamente. Il mito della crescita ha obnubilato l’attenzione, libero mercato in libero Stato ha fatto sì che sia stato il lavoro e i suoi prestatori a pagarne il prezzo, a favore del capitale. Lo avrebbero rilevato in tanti, da Tody Judt a Thomas Piketty a David Graeber, allarmati incitando a non gettare il bambino con l’acqua sporca.
Così, in un breve volgere di anni, la delusione democratica è affiorata, le masse operaie e proletarie divise e disperse dalla nuova divisione internazionale del lavoro si sono ritrovate senza più referenti, che le socialdemocrazie, i partiti si erano tutti votati al credo liberista. Un nuovo classismo ha cominciato a farsi strada, nuovi steccati sono stati eretti, fino a disgregare il tessuto sociale che aveva fornito la linfa democratica alla «società del benessere». Che ha cominciato ad essere prerogativa di maggioranze via via più ridotte. Con i poveri alle frontiere e nelle periferie.
Erano anni che si diceva che le disuguaglianze non trattate, che la mobilità sociale ridotta avrebbero portato allo sfaldamento del tessuto democratico. Erano anni che si gridava che l’Europa «sociale» era rimasto un mito sfoderato solo per nascondere quella del libero mercato, che l’illusione della «crescita per tutti» non avrebbe retto. E così è stato. Riflettendosi nei risultati elettorali.
I partiti della sinistra si sono via via sfarinati, chi dietro bandiere lise, chi dietro nuovi miti modernisti, «interclassisti», oltre le classi perché «le classi non ci sono più». Così, elezione dopo elezione, le classi popolari hanno cercato altrove, appellandosi a chi faceva loro gola, strumentalmente. Per ritirarsi, pian piano, nella disillusione.
Questa è la responsabilità storica: aver fatto svanire l’illusione democratica che uno Stato equo avrebbe provveduto ai più, prendendo da chi ne ha per dare a chi non aveva avuto le stesse opportunità. Storica perché segna un’epoca. Già nel 2013 era apparso chiaro: attenzione, chi si appella a istanze egalitarie troverà consenso, per quanto strumentale. Niente, da sinistra non è venuto alcun ripensamento. Tutta la sinistra. E si è giunti al 2018 senza aver riflettuto per un solo momento sugli errori. E si è continuato, fino a finire nel baratro quattro anni dopo.
La coazione continua. Ci fosse uno solo di quella classe dirigente che affermi di voler ripensare tutto. Sta forse avvenendo una discussione su quale società, quale sistema di relazioni economiche e sociali, quale modello si vuole? Nel Pd si parla di nulla, nuove persone per un partito senza progetto. Fuori dal Pd si coltivano orticelli identitari. Altri ora sventolano la bandiera «progressista», guardando all’oggi, piccoli cabotaggi per restare a galla senza cambiare nulla. Le ragioni delle iniquità restano, vittime del capitalismo globalizzato restiamo tutti, subendolo come se non ci fosse nulla da fare. Non «ce lo dice l’Europa», è la mancanza del coraggio del pensiero il problema.