L’Istat ha reso noti ieri i dati sulla povertà in Italia relativi al 2023.
Sono 2,2 milioni di famiglie (8,4% sul totale delle famiglie residenti, come nel 2022), e quasi 5,7 milioni di individui (9,7% sul totale dei residenti, come l’anno prima), la cui spesa sta sotto la “soglia di povertà assoluta”: quasi un italiano su dieci, quindi, non ha a sufficienza di che vivere. Rispetto al 2022, i poveri aumentano nel Nord-ovest (al 9,1%), calano di poco nel Nord-est (all’8,6%) come nel Sud (dal 13,3% al 12%), mentre aumentano al Centro (al 7,9% e nelle Isole (11,9%). Sono soprattutto le famiglie con figli minori a soffrire di più, come quelle con tre o più figli minori (il 21,6%) e le coppie con tre o più figli (18,0%). Il dato complessivo, tra l’altro, è in aumento per i minori (il 13,8% dei residenti con meno di 18 anni di età) ed è stabile per i giovani tra 18 e 34 anni (11,8%). Sono gli stranieri, tuttavia, i più colpiti. Le famiglie con stranieri – che sono solo l’8,7% del totale – sono povere nel 31,3% dei casi. Il che vuol dire che gli stranieri, una volta in Italia, fanno molta fatica a trovare una collocazione sociale adeguata: solo uno su tre non vive in povertà.
La condizione professionale del capofamiglia o del percettore principale di reddito nella famiglia fa ovviamente la differenza. I livelli di povertà sono infatti bassissimi per i dirigenti e impiegati (2,8%), gli imprenditori e liberi professionisti (1,7%) e anche per i lavoratori autonomi (6,8%) e per i pensionati (5,7%). Sono invece molto più alti per disoccupati o gli scoraggiati inattivi (15%, in aumento), per gli operai e assimilati (16,5, in aumento) e per quelli in cerca di occupazione (20,7%). Parimenti, tra chi non ha titolo di studio o ha solo la licenza elementare i poveri sono il 13,3%, tra chi ha la licenza media il 12,3% e tra chi ha almeno un diploma il 4,6%.
Il quadro è drammatico, anche perché non pare particolarmente affetto dall’andamento della congiuntura né, come è stato osservato, dall’andamento dei prezzi e dell’inflazione, che pure ha diminuito il potere d’acquisto dei redditi degli italiani, particolarmente i meno abbienti. Cinque anni fa le famiglie povere erano meno di 1,7 milioni, il che vuol dire che oggi ne abbiamo mezzo milione in più: gli individui poveri erano quasi 4,6 milioni, ora ce ne sono un milione e 100mila in più. il tasso di povertà era il 13,2% tra gli operai e il 19,7% tra quelli in cerca di occupazione, così come era più basso tra i possessori di sola licenza elementare (11,1%) e di licenza media (10,9%). Il numero di poveri minorenni è rimasto stabile, mentre sono aumentati di 200mila unità gli stranieri poveri (erano un milione e mezzo). La povertà è un fenomeno che, quindi, colpisce anche chi lavora e chi ha bassi livelli di istruzione.
Ora, è vero che nel 2023 l’occupazione è aumentata, come è cresciuto il numero di ore lavorate, il numero di dipendenti e, tra questi, il numero di dipendenti a tempo indeterminato. Tuttavia, l’Istat ci dice anche che il 18,2% dei lavoratori è a tempo parziale, cui l’11,2% tra i dipendenti permanenti; il 12,4% è a termine, di cui un terzo a tempo parziale, mentre tra i lavoratori autonomi, che sono il 21,2% del totale, solo un settimo è a tempo parziale. Molte posizioni lavorative prevedono ancora una durata massima, nella media annuale, inferiore ai 30 giorni; le ore lavorate e retribuite calano soprattutto per le posizioni meno qualificate, e il reddito annuo percepito per i primi decili della distribuzione è inferiore ai mille euro annui.
È chiaro che sono queste le posizioni lavorative più esposte, così come è evidente che il problema sta nelle retribuzioni. In Italia, i salari sono notoriamente fermi, particolarmente tra le professioni meno qualificate e i lavori meno retribuiti. I livelli di reddito sono bassissimi tra chi ha bassa “intensità di lavoro” (come la chiama Eurostat), ovvero ha un impegno lavorativo a part-time o a termine. Un Paese dove, nonostante tutte le lamentele confindustriali, flessibilità e contrattualità “creativa” hanno disarticolato il mercato del lavoro tanto da rendere la nostra forza lavoro competitiva rispetto a molti nostri partner globali, all’insegna del neoliberismo globalizzato più “free-marketeer”. Così, abbiamo fino ad un quinto delle nostre famiglie che sono “quasi povere” e un quarto “a rischio povertà”. E dire che sono anni che ce la cantano che non abbiamo fatto abbastanza per abolire le “rigidità”, e la sinistra abbocca. Poveri noi, povera Italia.