Vive la liberté!

Ronchidoso, 80 anni fa


Voglio qui rivolgere alcune parole a voi, che siete qui oggi a rinnovare la memoria di eventi di cui questi luoghi furono testimoni.

Ronchidoso.

Nei locali della chiesina qui sopra, nel giugno 1944 si erano ritrovati cento ragazzi e un capitano poco più grande di loro, mettendo insieme la Brigata Giustizia e Libertà.

C’erano Checco e Paolo Berti, Gigino Amaduzzi, Renato Frabetti, Leonardo l’Alpino, e Firmino e Cenzino e Pelloni e Binda, e Napoleon e Lello, e tutti gli altri. Li abbiamo conosciuti, ce li ricordiamo, anche se non sono più tra noi.

Erano ancora ragazzi, troppo giovani per saper fare la guerra, ma già uomini pronti per morire. Su per questi monti, alla macchia, tra la Segavecchia e la Donna Morta, tra Pian Cavallaro e i laghi di Pratignano, su per i sentieri a combattere gli italiani fascisti, armi in pugno per cacciare i tedeschi nazisti. Presto scoprirono che il gioco era serio, e cominciarono a morire davvero.

Come il Biondo di Corvella, impiccato al palo del telegrafo, come Irio «che aveva combattuto coi rossi a Guadalajara», impiccato con il filo spinato alla grata del municipio di Lizzano, come Pitagora, più giovane, fucilato contro il muro del cimitero di Monteacuto.

Furono i mesi dell’estate del 1944. Poi, in settembre, gli alleati passarono il primo fronte della Linea Gotica e i tedeschi arretrarono, senza mollare l’osso. Su questi monti, dove gli eserciti non erano ancora passati, arrivarono le truppe.

Qui a Ronchidoso, di Sopra e di Sotto, i Zaccanti e i Palmonari avevano alloggiato famiglie venute su da Bologna, sfollate. E avevano dato riparo anche ai partigiani, di stanza alla chiesina.

Quando arrivarono, quel 28 settembre 1944, i soldati in plotone, annunciati dal grido disperato della sentinella, i ragazzi si dispersero, nascosti tra i castagni. Il buon Attilio Zaccanti e i suoi ricevettero il nemico a Ronchidoso di Sopra. E a lui chiesero «avere in casa partigiani?» e lui rispose «no».  Ma li scoprirono.

C’era Rossano Binda, c’era Jacques Napoleon, c’erano l’Alpino e Aldo Lenzi e Olindo Brasa e il figlio imberbe, Luigi, e c’era Ioffa e l’ignaro figlio Bruno. E il fuoco, feroce, li falciò. Luigi, 14 anni; Bruno, 17 anni; Lino, 19 anni. Rossano, coetaneo di Checco, partigiano, 18 anni. E Attilio, 50 anni.

I tedeschi scesero di sotto, e presero tutti in ostaggio, prigionieri per una notte. Dal paese vennero ad implorare, il giorno dopo, sul cortile, al nemico, che avesse pietà, facendolo infuriare. «Qui sono io il comandante e il becchino», gridò l’ufficiale.

E presero tutti, li condussero in fila al Cason dell’Alta, e li fucilarono. Cadaveri, li coprirono col fieno, facendone macabro falò. Nelle luride stalle di Ronchidoso, i loro nomi sono ora bisbigliati e una candela brucia le foglie del dolore.  

Potete leggerli tutti, quei nomi, lì al Casone, e ricordarli tutti. Tutti, perché non fu solo la rappresaglia, fu l’ignominia della vendetta. Ne uccisero 67, donne e uomini, giovani e anziani, inermi, innocui, innocenti.

Rimase nell’aria l’odore di fuoco tra i castagni, dei fienili che ardono del fieno fumoso perché bagnato e delle case che bruciano. Per prati e campi, intorno a Ronchidoso, rimase tutto un cimitero. Gli uomini e le donne, insepolti tra la spagna. Poi, venne il tempo dell’erba sulle rovine, dei rovi sui sassi bruciati, della pioggia nera strappata ai cuori. L’atroce delitto fu scoperto dopo settimane.

Ca’ Berna.

In settembre, gli alleati passarono il primo fronte della Linea Gotica e i tedeschi arretrarono, senza mollare. Su questi monti, dove gli eserciti non erano ancora passati, arrivarono le truppe.

Qui a Ca’ Berna vivevano poche famiglie, una delle quali era quella di Maria Bernardini, vedova con tre figli giovani, Franco, 21 anni, che era stato militare ma era tornato a casa malato di tubercolosi, Antonio, 18 anni, e Claudio, 14 anni. Antonio, per non andare con la Repubblica di Salò, si era aggregato alla banda partigiana di Romolo Castelli, Toti, che stava sui monti della Riva. A Ca’ Berna, I partigiani passavano spesso, accolti ricevevano riparo, un piatto di polenta e un brodo caldo. Ma in questi borghi non si era mai combattuto, non era mai stato sparato un colpo, dacché i combattimenti avvenivano altrove.

In quei giorni, i tedeschi in ritirata si muovevano verso nord. I partigiani li avevano fronteggiati qua e là, ma avevano deciso di non scontrarsi frontalmente per lasciarli muovere verso il crinale del Belvedere. Quella mattina del 27 settembre, un folto plotone scende giù dal Cavone fino a Madonna dell’Acero e a Pian d’Ivo, da cui si vede la valle tutta. I tedeschi marciano, sono a piedi, senza mezzi, formando una lunga fila. Dopo aver passato il Rio Ri, vengono avvistati da alcuni partigiani che aprono il fuoco. Ma non vi sono caduti, solo il parapiglia degli spari.

Alle case di Ca’ Berna, nell’udire il fuoco, c’è chi fugge e chi si nasconde in casa. Toni Bernardini scappa coi due fratelli nel bosco e non riesce a portare con sé la mamma, nemmeno strattonandola, perché vuole restare di guardia alla casa, per paura delle razzie, convinta che non le faranno nulla.

Ma i tedeschi, non appena giungono al borgo, raccolgono tutti i civili intorno e li passano per le armi, uccidendoli ad uno ad uno con un colpo alla nuca. 27 saranno gli uccisi.

Maria Bernardini, 55 anni, le cognate Gelsomina Domenica Burchi, 41 anni, Ada Zanacchini, 49 anni, con il figlio adottivo Romolo Baratti, 5 anni, e le nipoti Clementina, Lia, Maria Delia Bernardini.

Maria Zanacchini, 54 anni, la sorella Annunziata Zanacchini, 46 anni e la nipote Novella Franci, 14 anni.

Olimpia Castelli, 41 anni, Giuseppina Cantelli, 17 anni, di Gaggio, Ofelia Bernardi, 19 anni, Maria Giacobazzi, 21 anni, che fa l’operaia a Bologna.

Erminia Piovani, 61 anni, e il marito Attilio Ugolini, 68 anni, la nuora Corinna Ferrarini, 24 anni con i suoi figli Romolo, 4 anni, e Sergio Ugolini, 12 anni. Olindo Castagnoli, 58 anni, Anna Demaldè, 41 anni, uccisa con la figlia Maria Grazia Taglioli, 4 anni.

Rina Tamburini, 24 anni, Elio Vitali, 16 anni, Giorgio Vitali, 14 anni, Italia Vitali, 22 anni, Laura Vitali, 18 anni.

Assieme a questi, cadono anche i partigiani, che forse avevano trovato momentaneo riparo nelle case, Dante Benazzi, bolognese, meccanico alla Calzoni, quasi 22 anni, Pietro Pelotti, di Granarolo, 21 anni, e Armando Zolli, 34 anni, che arrivò in moto e venne ucciso.

Il fuoco nazista, feroce, li falciò, in pochi minuti.

Cadaveri, li lasciarono nella casa qui sopra. Toni e i suoi fratelli, nel bosco, udivano i colpi che stavano uccidendone la madre. Dal bosco videro anche i tedeschi colpire alla schiena i due anziani coniugi Ugolini.

Potete leggerli tutti, quei nomi, qui sulla lapide, e ricordarli tutti. Tutti, perché non fu “rappresaglia”, fu l’ignominia della vendetta.

Per prati e campi, per i boschi intorno, rimase tutto un cimitero. I nazisti se ne andarono lasciando case in fumo e il silenzio della morte. Gli uomini, le donne, i bambini, insepolti. Subito accorse Toni, che scoprì l’orrendo delitto, subito corse la voce verso la valle, versò Poggiolforato, dove scesero le belve tedesche, verso Vidiciatico.

Oggi io dico:

Voi, ragazzi, partigiani per un’idea, nascosti nella boscaglia, la fratta non aveva più spazio per voi, braccati, e in silenzio piangevate la vostra terra. Tombe sui campi dilaniati avevate lasciato, non sarcofaghi come quelli degli eroi.

Pecore ora siamo nell’Italia morta, un Italia sepolta sotto l’oblio. Noi dobbiamo tenere accese le braci della memoria. Perché è la nostra storia, come un letto di torrente che si riempie di scrosci di pioggia.

Voi foste quegli uomini che non persero il cuore al tempo della bufera.

Questa terra dal cuore frantumato. È questo che dobbiamo fare: ricordare.

Ronchidoso ha ottanta anni. Dobbiamo tornare a quegli anni lontani, a quei tempi remoti con le nostre parole, fogli gettati sulla terra dei morti. Come Checco che inveiva: «È oggi che dobbiamo contrastare! Questo oblio divorato dalla nostra pancia sazia che più non ricorda e che tutto assume!»

Gli uomini e le donne di oggi al potere e nelle città hanno un riso tremendo, ci chiamano “vecchia guardia”, non vogliono più che si parli della iena tedesca, del duce imbelle.

Non riconoscono debiti, non vogliono conoscere la tristezza dei vecchi, né ascoltare la voce che dice di passate miserie che affonda tra le pietre di tombe e con le loro mani incaute devastano il silenzio con le loro voce rumorose.

Siamo vivi anche solo per questo, per dire parole, per imprecare vergogna, per invocare giustizia, rimorso e pace. Non una flebile voce per cantare, il rumore di passi pesanti sull’aia, le risate dei vivi uguali al macabro riso del vincitore sul tragico riso del vinto.

«Il male è dappertutto uguale. È male», disse il poeta Roberto Roversi.

Lo sanno le madri di Srebrenica, in Bosnia, lo sanno le madri di My Lay, in Vietnam, le madri di Santiago, in Cile, le madri di Bucha e di Mariupol, le madri di Gaza.

«Perché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? A che serve la memoria?» si chiedeva Primo Levi. Abbiamo noi una risposta?

Ma, attenzione! Oggi, che si parli della “vergogna della guerra”, della barbarie nazista come fosse qualcosa di alieno, attenzione!

Furono cattivi non perché tedeschi, ma perché accecati da un’ideologia feroce. Come lo furono i fascisti, italiani, sì, ma guidati dalla violenza del sopruso, della sopraffazione, della supremazia dei forti e inquadrati contro i deboli e i liberi. Quei fascisti che raccolsero il consenso di tanti, che erano andati al potere con la violenza delle squadre di picchiatori, che avevano governato con la dittatura e che, quando il re e uno dei loro generali decisero di farla finita e di portare l’Italia dall’altra parte, li accusarono di tradimento.

Rimessi in sesto da Hitler, la loro Repubblica fantoccio reclutò giovani che disertarono a migliaia, mentre altri giovani, volontari, si unirono alle Brigate Nere e alle Milizie repubblicane. Furono volontari, badate bene, non giovani ingenui. Migliaia di giovani e meno giovani, funzionari e dipendenti, che dopo la guerra non pagarono per la loro scelta, che continuarono a coltivare la vendetta, fomentando ancora e per decenni l’odio, seminando idee di rivincita.

Oggi, tremuli epigoni loro eredi sono al potere – solo grazie all’oblio di un popolo dalla memoria cieca – e vogliono riscrivere la storia. Ma sempre, al fine di imporsi, il dominio fascista deve liquefare retroattivamente la storia, come scriveva Walter Benjamin: «anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere». Il progetto fascista di oblio è oggi tornato, non ha smesso di vincere. A questo dobbiamo opporci, per questo siamo qui oggi.

Ottanta anni sono passati, ottanta anni di inespiata condanna.

Perché non era solo la cieca violenza nazista, non era tanto la pretesa superiorità germanica, la potenza della razza, non era volontà di potenza, era quel germe rinato più forte del sopruso dell’uomo sull’uomo. «Mai più», si diceva, come se la follia nazista e fascista fossero solo il frutto della pazzia di un uomo. Gli andò dietro un popolo intero, nel nome della superiorità della razza e della cultura della “nazione”.

Doveva essere la fine di ogni orrore: «mai più», si disse. 50 milioni di morti, dei quali 200 mila dovuti a due sole bombe, quelle su Hiroshima e Nagasaki.

Ma poi vennero molte altre guerre: la Corea, il Vietnam, l’Algeria, l’Iraq, la Jugoslavia, l’Afghanistan e oggi l’Ucraina e Gaza. Milioni di uccisi. L’orrore che non doveva ripetersi si è ripetuto e continuerà a ripetersi. Dobbiamo dire «no alla guerra» sempre e comunque, perché dalla guerra non nasce la pace. Dobbiamo dire no alle armi, al sopruso, alla sopraffazione, all’idea che l’altro va eliminato.

La pioggia annuncia l’arrivo dell’autunno. Come quel 28 settembre di ottanta anni fa. Sarà un lungo inverno, un lungo inverno da cui, pure, verremo fuori

Questo testo, nelle due versioni, è stato scritto per essere letto alla cerimonia di commemorazione dei caduti di Ronchidoso, dei partigiani della Brigata Giustizia e Libertà e dei civili e militari caduti sui monti d’Appennino il 21 settembre 2024 e alla cerimonia di commemorazione dei caduti di Ca’ Berna il 28 settembre 2024.


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