C’è una parola che in questi giorni è nella mente di tutti e nessuno la pronuncia, nessuno la usa: repressione. È quello che sta avvenendo nei campus di tutto il mondo, non solo occidentale: la repressione di un dissenso, di un movimento. C’erano state manifestazioni imponenti in molte città – con centinaia di migliaia di partecipanti, uomini e donne di tutte le età, nazionalità e religioni – quasi sempre senza alcuna violenza.
Ora, si è deciso di passare all’uso della violenza di Stato – questa è la repressione – contro manifestanti pacifici, contro chi esprime un pensiero “altro”. Studenti che protestano, oggi come il 4 maggio 1970, in cui 4 studenti che protestavano contro la guerra in Vietnam vennero uccisi dalla polizia alla Kent State University in Ohio. La repressione per sopprimere un movimento di idee non accette, non gradite al potere.
Con la violenza si reprime chi protesta contro l’uso di una violenza ben maggiore, la guerra.
Di fronte a quanto sta avvenendo a Gaza e nei territori occupati della Cisgiordania – il massacro deliberato di un popolo – il movimento di protesta è cresciuto, andando oltre la denuncia e l’indignazione, iniziando a chiedere l’esplicita rottura di ogni rapporto con il governo di Israele e con l’economia di Israele. Ha investito decine, centinaia di università, migliaia di studenti e docenti. E ora sta assumendo proporzioni di portata storica.
Certo, c’è chi si esprime in favore di Hamas, argomentando che la lotta di liberazione in Palestina oggi è guidata dal Movimento di Resistenza Islamica Hamas. Si può non essere d’accordo con questa posizione e con quanto da questa posizione deriva: che l’attacco terroristico di Hamas sia giustificabile. Ma per quanto si possa dissentire da questa posizione ciò non toglie che non si può dissentire dal fatto che oggi a Gaza sta accadendo uno sterminio di popolo, che il cessate il fuoco deve essere immediato e che ai palestinesi debba essere ridata in pieno la facoltà di auto-determinare il loro destino.
Le posizioni a favore della Palestina sono molte e sono tutte critiche del governo di Israele e della sua politica di sterminio. Il movimento pro-Palestina esprime una molteplicità di posizioni, non una; non ha leader perché non ne ha bisogno, è un movimento che non appartiene a nessuno. Ciò che lo spinge è la solidarietà, la necessità ormai percepita dal mondo intero che ai palestinesi sia data una terra e uno Stato che li riconosca.
Non si può – non è accettabile – reprimere chi si esprime a favore della causa palestinese semplicemente ricorrendo all’accusa di antisemitismo. Perché difendere la causa palestinese non ha nulla a che fare con l’idea che il popolo d’Israele non debba esistere, né che non abbia diritto ad una giusta aspirazione alla pace.
Nelle democrazie occidentali, invece, si è infine deciso di reprimere quello che a tutti gli effetti sta diventando il più grande movimento di solidarietà che il mondo ha visto negli ultimi decenni. E persino dire questo – che ciò che si sta attuando è una repressione – non è permesso. Repressione è una parola proibita.
Sono anni che negli USA movimenti come Students for Justice in Palestine (SJP) e Jewish Voice for Peace (JVP) chiedono alle università di interrompere i loro rapporti con Israele, di disinvestire, di boicottare. Nessuno li aveva repressi, finora. Ora che in questa guerra tutto l’Occidente appare schierato, li si reprime in nome della “sicurezza”, quella che sarebbe minacciata, degli studenti che sono a favore di Israele.
Mentre quindi è ammesso essere a favore di Israele, non lo è essere a favore dei palestinesi. È questa la libertà di opinione? La libertà di parola? Perché gli studenti a favore della Palestina devono poter essere passibili di minaccia – a decine lo sono – mentre quelli a favore di Israele andrebbero protetti? Perché non si fa nulla per proteggere quelli pro-Palestina?
Il perché è chiaro: si vuole proteggere non la libertà di parola, non la libertà di dissenso, ma la protezione che i legami con Israele garantisce in nome della «difesa della civiltà occidentale» e dei valori dell’antisemitismo. Facendo così un torto tanto alla difesa di quei valori che alla libertà, lasciando covare il suo opposto.
Nel nome dell’antiterrorismo, della difesa dall’antisemitismo, si è così tornati ad usare quella che sembrava una pratica dimenticata dai tempi della Paura Rossa, la repressione indiscriminata. Negli Stati Uniti, in Germania, in Francia, in Gran Bretagna e anche in Italia.
Cosa possiamo dire noi, oggi, qui, a Bologna, mentre assistiamo passivi a tutto ciò? Dopo il ’68 – e persino dopo il ’77 – avevamo sviluppato una cultura che aveva fatto della necessità della diversità e dell’inclusione un valore, a parole. A Bologna, in Italia, in Europa, ci siamo in questi anni cullati nell’auto-celebrativa convinzione che, proprio per rimediare a tutti i guasti della nostra cultura suprematista, razzista e colonialista, dovevamo accettare «gli altri» ed elogiare chi si era battuto per l’uguaglianza – nella Resistenza, per il Vietnam, per i lavoratori, per i popoli che si liberavano dal colonialismo – perché questo era il segno del nostro progresso. Oggi, di fronte alle atrocità cui assistiamo a Gaza, con il supporto dei Paesi occidentali e delle nostre imprese, sembriamo strabici, non ne vediamo il nesso. Non è forse la stessa cosa? Qualcuno sta forse alzando la sua voce contro questa repressione?
La repressione che passivamente accettiamo è il segno di come la nostra democrazia stia degradando verso l’autoritarismo. Le nostre élite soi-disant liberali sono cieche, non c’è noblesse, non c’è oblige. Decadenti, hanno perso la strada. E in questa cecità sono le sinistre quasi più colpevoli, perché accettano tutto questo nel nome di una giustizia che vede solo quelli che già sono inclusi, lasciando fuori chi non lo è.
I detriti della storia li cancelleranno. L’angelo della storia di Walter Benjamin lo vede quel passato dove il progresso non è che catastrofe. Il genocidio di cui è stato capace l’Occidente si ripete e quell’angelo ha le ali impigliate dal vento che spira dal futuro, cui volge le spalle, perché guarda al passato. È per non farci travolgere, ora, che dobbiamo alzarci è unirci al mondo che grida per la Palestina. E rifiutare la repressione.