Vive la liberté!

I problemi che abbiamo davanti


28 settembre 2022

I problemi che abbiamo davanti vengono, in realtà, da molto lontano. E ciò che si sta configurando, vogliamo dirla con queste parole, è una crisi della nostra democrazia. Non tanto perché abbia vinto la destra post-fascista (ma anche questo fatto è una faccia dello stesso problema), ma perché con un astensione così alta dobbiamo davvero preoccuparci. Perché vuol dire che il popolo non ci crede, non si sente più rappresentato. Non è un fatto nuovo, è vero, ma lo è per le dimensioni che ha assunto. E una delle ragioni di fondo per questo aumento dell’astensione, va attribuito al fatto che la democrazia, il sistema parlamentare e i partiti, non rispondono più alle domande di vasta parte dei cittadini, che non vedono quindi più la”necessità” di votare, perché tanto l’uno quanto l’altro non affronteranno alcune delle questioni che li riguardano più da vicino.

Fino a un po’ di tempo fa si diceva che il sistema dei partiti è in crisi, che i partiti sono in crisi. I partiti sono nati come garanti della democrazia: essi dovrebbero organizzare il consenso su proposte che poi porteranno in parlamento o al governo per tradurle in politiche. Ma da tempo, molti partiti sono diventati altro: coalizioni elettorali messe insieme allo scopo di creare gruppi di potere o quanto meno di influenza, per beneficare in primo e forse ultimo luogo la “constituency” dei loro elettori. In un quadro in cui si sono perse le idealità di fondo – una società diversa, una società più giusta, un’idea di trasformazione dell’esistente, che è oppressivo e iniquo – i partiti propugnano e portano avanti politiche che non sono altro che “gestione dell’esistente” nell’ambito delle direttive UE e per il mantenimento dello status quo. Che forse va bene a molti, ma non a tutti. E quelli a cui non va bene, senza che per questo si rivoltino, sono e si sentono esclusi, sono e si sentono emarginati. L’Italia è un paese di grandi disuguaglianze di reddito, dove la povertà riguarda un quinto della popolazione, dove una larga fascia non ha titolo di studio, dove chi vive in certe regioni del Sud non ha certo le stesse opportunità di chi vive al Nord, dove un grande numero di comuni delle aree interne sono sostanzialmente abbandonati a se stessi. E dove i problemi della de-industrializzazione, dei servizi a basso valore aggiunto, del precariato, del territorio, della cementificazione, del consumo di suolo, e via dicendo, riguardano tutti e colpiscono soprattutto le fasce più deboli (quelle che definiamo classi popolari).

Fino a una quindicina di anni fa, l’astensionismo alle elezioni politiche si era mantenuto sotto il 20%. Le elezioni del 2006, vinte dall’Ulivo di Prodi, portarono a una legislatura brevissima e alla successiva tornata elettorale, nel 2008, a sinistra ci fu una perdita di elettori che portò alla nuova affermazione di Berlusconi ma anche a un lieve aumento dell’astensione. Il neonato Pd di Veltroni ebbe sì un’affermazione – 10 milioni di voti, il 33% – ma non fu sufficiente a frenare la delusione. La crisi economica fece il resto. Nel 2011, il pericolo del default, portò la BCE ad intervenire con la famosa “lettera”, lo spread ebbe un’impennata e Mario Monti fu chiamato a sostituire Berlusconi, il Pd lo appoggiò in un governo con Forza Italia e quando si arrivò alle elezioni del 2013, il Pd di Bersani, che si presentò come il partito della “responsabilità”, raggiunse appena il 25%, l’affluenza calò ancora e l’astensione salì al 24.8%. Le politiche dell’austerity e una crisi dai pesanti effetti sociali si rifletterono in un aumento del disimpegno e della disillusione. Non a caso, in quel frangente, si affermò il M5S, che si presentò come partito “anti-sistema”, in nome dell’eguaglianza e contro la “casta” delle élite al potere, ottenendo il 25% dei voti validi.

A sinistra, in quell’occasione, non vi furono ripensamenti. Arrivato Renzi a risollevare le sorti del partito, scalzò prima Bersani (alla guida del Pd) e poi Letta (alla guida del governo), in nome della rottamazione. Senza cambiare politiche, però, né l’impianto ideologico politico del partito. La meteora di Renzi fu rapida e dopo il 40% alle europee del 2014, il crollo fu continuo: prima il referendum costituzionale e poi le elezioni del 2018, che portarono il Pd a 6milioni di voti, il 18%. Il crollo si accompagnò all’aumento enorme dell’astensione, che raggiunse il 27.07%.

Cosa provocò quell’aumento? Come ho già argomentato, le politiche di quegli anni avevano avuto un profondo impatto sociale, con un aumento delle disuguaglianze e della povertà, in un quadro di disoccupazione in crescita e scarsa mobilità sociale. E fu soprattutto il principale partito della sinistra a pagare il prezzo di quelle politiche, appena compensato dall’ascesa dei 5Stelle, che sfruttarono il malcontento e la rivalsa sociale contro i partiti “mainstream”, raggiungendo il 10,7 milioni di voti, quasi un terzo dei voti validi, soprattutto al Sud, dove ottennero percentuali “democristiane”.

Ciò che è successo dal 2018, ricalca uno schema consolidato. Il Pd e la sinistra non hanno guardato alle cause del loro insuccesso, non hanno cambiato rotta e quell’elettorato a cui avrebbero dovuto rivolgersi si è definitivamente perso. Allo stesso tempo, i 5 Stelle, al governo per tutta la legislatura, prima con la Lega, poi con il Pd e poi con Lega e Pd, hanno ottenuto ben poco delle promesse “egalitarie” (oltre al RdC). Le classi popolari, già frustrate e disilluse dalla sinistra, hanno finito per non credere più nemmeno ai 5 Stelle, che hanno abbandonato in massa. E così, il 25 settembre, sono rimaste a casa in quote ancora maggiori. Il calo dei votanti, numericamente, è stato di 4,7 milioni. Il M5S ne ha persi 6,4 milioni, attestandosi al 15.4%,; il Pd ne ha persi 800mila, fermandosi al 19.1%. Certo il centro-destra ha aumentato le sue percentuali, mantenendo però un numero di voti equivalente.

L’aumento delle astensioni ha riguardato soprattutto le fasce più deboli – gli studenti, i disoccupati, le casalinghe, ma anche gli operai, le persone in difficoltà economiche, i ceti a reddito basso e medio-basso – e ha così penalizzato una sinistra che non pare più rispondere ai loro bisogni. E ha riguardato in primis il M5S e, in parte anche il Pd (se, come sembra, parte di chi aveva votato 5S e Pd ha votato a destra). Un processo che viene da lontano, dunque, e che per essere modificato richiederà una profonda opera di revisione della linea, delle politiche e di tutto l’impianto che ha guidato fin qui il Pd.

In questo, le forze della sinistra “altra” hanno giocato un ruolo solo marginale, subalterno a quello del Pd. Il loro messaggio non ha saputo diversificarsi e quelle classi popolari a cui si sono rivolte non sono state raggiunte. Il M5S, riconfigurandosi come forza “progressista”, ha saputo forse frenare l’emorragia causata dalla disillusione. Ma il fatto è che una parte ormai consistente dell’elettorato italiano – la più debole ed esclusa, ahimé – non si riconosce più nel sistema politico. Molte energie e idee nuove saranno necessarie per ridargli fiducia, prospettiva e voce. Al di là dei politicismi e delle alchimie personalistiche, solo ripensandosi la sinistra potrà riportare le grandi masse che la sostenevano al voto.