25 settembre 2022
Per fare un esercizio di previsione con un po’ di accuratezza, bisogna prendere in considerazione, oltre alle tendenze politiche, il numero dei votanti.
Nel 2018, andarono a votare 33,9 milioni di elettori (per la Camera), pari al 72,9% degli aventi diritto. Con quasi un milione di schede nulle, i voti validi furono più di 32,8 milioni. Al centro-destra – Fi, Lega, FdI e altri – andò il 37% di quei voti validi, al M5S il 32,7%, al centro-sinistra – Pd, LeU, +Europa e altri – andò il 26,3%, mentre agli “altri” andò il 4,1% (e non elessero alcun deputato). In termini assoluti, il centro-destra prese 12,1 milioni di voti, il M5S 10,7 e il centro sinistra 8,6. La Lega ottenne 5,7 milioni (il 17,4%), Fi 4,6 (il 14%) e FdI appena 1,43 milioni (il 4,4%). Nel centro-sinistra, al Pd andarono 6,1 milioni (il 18,8%), a LeU 1,1 (il 3,4%), a +Europa 841mila (il 2,6%).
Ora, si è tanto agitato lo spauracchio di una vittoria della destra ma questa, appunto, aveva già avuto la maggioranza relativa. Sono trent’anni, da quando il signor B. ha fondato il suo personale partito che la destra ha spesso avuto la maggioranza, anche maggiore, dei voti. La differenza è che stavolta, secondo i sondaggio che seguono da mesi l’evoluzione delle opinioni di voto, sarà il partito di Giorgia Meloni ad avere la maggioranza nella coalizione e sarà, forse, il partito di maggioranza relativa. Di quanto lo sarà, però, dipende dal numero dei votanti e delle astensioni.
Una convinzione generalizzata è che l’astensione aumenterà ulteriormente. Le ragioni vengono indicate nella sfiducia, nel disinteresse, nel “menefreghismo” o addirittura nell’egoismo. In pochi sembrano cogliere che la decisione di non partecipare al voto sarà anch’essa una decisione politica. La “disaffezione” ha origini precise ed è miope non volerle considerare.
Il parlamento uscente era stato il risultato di un processo che aveva portato all’affermazione dei 5 Stelle come partito maggioritario e al crollo del Pd, che nelle precedenti elezioni del 2013 aveva raccolto più di 8,6 milioni di voti e il 25,43% dei voti validi, contro il 25,56% del M5S (alla Camera). Il centro-destra tutto aveva avuto, in quella occasione, il 29,18%, contro il 29,55% del centro-sinistra (con un’affluenza del 75,2%). Lo spostamento di voti era stato quindi verso i 5S (con due milioni di voti in più), verso la Lega (con 2,7 milioni in più) e l’astensione (con 2,4 milioni in più), dal Polo delle Libertà di Berlusconi (2,7 milioni in meno) e dal Pd (con 2,5 milioni in meno). Anche nel 2018, dunque, “vinse il centro-destra”, ma ci fu un partito, il M5S, che vinse più degli altri.
Ora, dopo una legislatura nata all’insegna del populismo – «apriremo il parlamento come una scatoletta di tonno» – e che ha partorito un taglio dei parlamentari senza allegata riforma elettorale e poche altre misure – il reddito di cittadinanza in primis – il M5S, che è stato sempre al governo si presentava a queste elezioni parecchio decimato, nei parlamentari e nei risultati sul terreno (in tutte le tornate elettorali dal 2018 il M5S ha continuato a perdere voti, fino a raggiungere un livello stimato attorno al 12%), lasciando così presumere che avrebbe perso parecchi voti, andando ad alimentare ulteriormente l’astensionismo. In realtà, logica vorrebbe che anche il Pd perdesse voti, a questa tornata, sia per la discutibile performance di governo che per la scialba campagna elettorale che ha condotto, divisa tra una rifatta “immagine di sinistra” e la candidatura di personalità di centro. E se anche la campagna dello stesso Giuseppe Conte a capo dei 5S è stata in crescendo, appropriandosi di un’agenda “sociale” riscoperta solo ora, dopo essere stato al governo per quattro anni e mezzo e facendo ben poco in quel senso, se non il tanto vituperato (da destra) reddito di cittadinanza, è difficile ipotizzare che domenica prossima l’astensionismo non crescerà ulteriormente.
Così, si possono fare alcuni conti, a mo’ di previsione, per vedere come può andare a finire. Naturalmente, va considerato che questa volta ci sono liste e formazioni che nel 2018 non c’erano e per le quali il confronto può non essere agevole. I casi più evidenti sono quello della lista Calenda-Renzi, quello di Sinistra Italiana che nasce da una divisione di LeU e si presenta con i Verdi, in coalizione con il Pd, e quello delle liste nuove, come Unione Popolare. Questa, è vero che raccoglie due liste che erano presenti (PRC e PaP) ma è più estesa, includendo DeMa, il movimento di De Magistris, e Manifesta, un gruppo nato da ex parlamentari 5 Stelle. Oltre ad altre liste (Italia Sovrana e Popolare, la lista di Paragone e altre).
Il pivot sarà, in un certo senso, il M5S. Quanti voti perderà rispetto ai 10 milioni e 700mila che aveva? Quanti voti perderanno il Pd e Forza Italia a favore di Calenda e Renzi? Quanti voti andranno a FdI? Quanti voti prenderà Unione Popolare?
Il numero chiave da cui partire, tuttavia, è quello dei votanti. Tutti hanno previsto che l’astensione, già alta aumenterà ulteriormente. Ebbene, per questo esercizio di previsione, assumiamo che gli elettori che si asterranno lo faranno perché “delusi” dai 5 Stelle. In altre parole, assumiamo che tutti i voti perduti siano sottratti al M5S.
Facciamo quindi due esercizi. Nel primo, il più negativo, supponiamo che gli elettori caleranno di 5 milioni. In questo caso, i voti validi scenderanno a 27,9 milioni (portando l’affluenza al 62,2%, in linea con gli ultimi sondaggi). Se le due coalizioni di CD e CS, incluso Calenda (che includiamo tra “altri” del CS) ottenessero esattamente gli stessi voti del 2018, e il M5S calasse di 5 milioni si avrebbe un CD al 43,5%, un CS al 30,9% e un M5S al 20,5%, con gli “altri” (inclusa Unione Popolare) al 5,1%. Questa ipotesi, si badi bene, non è così peregrina come sembra, perché vorrebbe dire che le due coalizioni maggiori hanno tenuto, nel loro complesso, e gli unici a perdere sarebbero i 5 Stelle. Si consideri, infatti, che in questa ipotesi potrebbe ben darsi che FdI divenga il partito di maggioranza relativa (con il 24,4%), se i voti nel CD si rimescolano, e al Pd andrebbe un 22,1%, se mantiene gli stessi voti.
Supponiamo ora che i votanti calino di 5 milioni ma che il M5S perda più di quei voti (nessuna previsione, infatti, li dà al 20,5%). Supponiamo così che perdano 6 milioni di voti e che 500 vadano al CD e gli altri 500 alle altre liste, come Unione Popolare. In questo caso, i 5 Stelle scenderebbero al 16,9%, il CD salirebbe al 45,3% e le “altre” liste salirebbero al 6,9%.
Si possono fare molti casi, con variazioni sulle perdite o sui guadagni dei vari partiti e delle varie coalizioni (si veda la tabella sotto). Quanto realistiche siano, dipende da molti fattori. Se, ad esempio, il calo degli elettori fosse solo di un milione, portando l’affluenza al 70,8%, si potrebbe avere un risultato di questo tipo. Nell’ipotesi che il M5S raggiungesse il 18%, perdendo 5 milioni di voti, perché FdI raggiunga il 24%, dovrebbe ottenere 7,65 milioni di voti validi, la Lega 4 milioni (con il 12,5%), FI 2 milioni (con il 6,3%). Nel CS, il PD potrebbe leggermente incrementare i suoi voti, portandosi a 7 milioni (il 21,9%), Sinistra Italiana più Verdi raggiungerebbero il 2,6% (se prendono gli stessi voti di Leu del 2018), Calenda e Renzi potrebbero portarsi al 3,8% (con 1,2 milioni di voti). In tale modo, per gli “altri”, con Unione Popolare inclusa, resterebbero 2,4 milioni di voti (il 7,6%) da dividersi. Per avere chiaro quanto realistico sia sperare che Unione Popolare raggiunga il quorum, bisogna quindi guardare al numero dei voti validi: il 3%, in questo caso, corrisponde a 950mila voti. Un grande risultato, non impossibile da ottenere.
Quanto queste “previsioni” siano precise dipende fondamentalmente da due fattori: quanto la sfiducia crescente verso il sistema politico, testimoniata dalla sempre più bassa partecipazione alle elezioni intermedie, andrà ad alimentare l’astensione e quanto questa penalizzerà le due forze che più di ogni altra sono apparse sulla difensiva al momento in cui sono state sciolte le camere, tanto da far apparire poi per tutte le settimane seguenti il partito di FdI come quello più con il vento in poppa. Sarebbe davvero un exploit se Conte riuscisse a contenere molto di più l’emorragia di voti che si preannuncia, il che è comunque possibile data la smemoratezza dell’elettorato italiano. Vista la performance di governo del M5S non ci sarebbe, infatti, da aspettarsi molto. Così come sarebbe una sorpresa se il Pd riuscisse a contenere le perdite, a sinistra come a destra.