31 agosto 2022
Con la morte di Michail Gorbaciov scompare l’ultimo simbolo del Novecento. Molto verrà scritto e detto sui media e sui social nei prossimi giorni – parole molto appropriate le ha espresse Tommaso Di Francesco sul manifesto di oggi – ed è importante riconoscere che ci troviamo di fronte al compimento della vita di una persona che rappresenta uno dei simboli del XX secolo, secondo solo a Nelson Mandela. Oggi, nel rivedere le foto e i video di quest’uomo dall’aria mite, lo sguardo attento, spesso accanto alla sua Raissa, non si può che provare commozione. Perché egli davvero rappresentò una speranza. Per i comunisti di tutto il mondo – perché incarnò in sé l’idea che il comunismo, che era stato il faro delle masse e di milioni di uomini e donne, potesse “riformarsi” e finalmente gettarsi alle spalle le ombre di un passato il cui fardello era pesante, nonostante le promesse tenute vive – come per i non comunisti, che avevano gioito di fronte alla possibilità di porre finalmente fine alla “guerra fredda”, alla contrapposizione dei blocchi e alla proliferazione di armi nucleari.
Per i comunisti italiani, Gorbaciov più di ogni altro leader russo rappresentò quasi una “rivincita”. Loro, che all’inizio timidamente – con la togliattiana “via italiana al socialismo” – e poi convintamente, con Enrico Berlinguer – non c’è socialismo senza libertà e non c’è libertà senza democrazia – videro in Gorbaciov il leader che finalmente faceva idealmente seguito al sentiero tracciato negli anni Settanta. Quei comunisti ricorderanno che proprio ai funerali di Enrico fu Gorbaciov a presenziare in rappresentanza del PCUS – era allora il “numero due” di Chernienko, lui, che dalle pianure agricole alle sponde del Caucaso era approdato ai vertici, protetto da Juri Andropov – e lo si vide ai balconi di Botteghe Oscure in quel triste giorno. Quando fu eletto e poi ancor più quando portò avanti la sua perestroika, con la necessaria glasnost – trasparenza – senza fare sconti, i comunisti italiani trovarono il senso di un percorso – “ma allora, avevamo ragione!” – che era stato lentamente inaugurato da Berlinguer nel suo discorso di 7 minuti al Congresso del PCUS del 1977 e poi più chiaramente con la famosa dichiarazione del dicembre 1981, a una Tribuna politica in occasione del colpo di Stato di Jaruzelski in Polonia, in cui affermava che si “era esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre”.
Se rileggiamo oggi le parole pronunciate in quella trasmissione televisiva – e notiamo il tono pacato e rispettoso dei giornalisti, non certo simile a quello attuale – vi ritroviamo tutte le ragioni di un percorso che aveva fatto del PCI “il più grande partito comunista d’occidente”, di aspirazione al socialismo nel rispetto della libertà e della democrazia. Se poi, mentre l’opera di Gorbaciov diede la spinta al dissolvimento dei regimi in Europa Orientale, dalla caduta del muro di Berlino in avanti, che porterà poi allo scioglimento della stessa Unione Sovietica, i comunisti italiani pensarono che era giunto il momento di chiudere un’epoca – gettando però a mare molto del patrimonio accumulato – fu anche perché Michail Gorbaciov aveva ispirato un cambiamento che doveva essere epocale, pur volendo fino alla fine mantenere aperta la possibilità che l’Unione potesse essere riformata “dall’interno”.
Gli occidentali – gli Stati Uniti in primis, ma anche i tedeschi, allora guidati dal democristiano Kohl, e i francesi e gli inglesi – non capirono nulla e fecero di tutto per averla vinta. “La Guerra fredda è finita”, aveva affermato Gorbaciov, “senza vincitori né vinti, perché non ci sono più né gli uni né gli altri”. Agli occidentali non andava giù: ci doveva essere un vincitore, ed era l’Occidente capitalista. Quanti in Europa guardammo con favore agli sviluppi di quanto accadeva in Russia e nell’URSS di Gorby: finalmente la grande Russia tornava a bussare alle porte dell’Europa e si poteva persino ipotizzare che un giorno l’Unione Europea avrebbe potuto davvero estendersi dall’Atlantico agli Urali. No, gli Occidentali trovarono il modo di imporre il loro modello allora molto in voga, quello del “Consenso di Washington” fatto di liberalizzazioni, privatizzazioni e deregolamentazioni, puntando sull’uomo sbagliato, quel Boris Eltsin che volle la fine di Gorbaciov. Quanta pena fu vederlo tornare a Mosca, in camicia, dopo quel colpo di Stato tentato dall’esercito; quanta pena vederlo assistere all’ammaina bandiera della Unione delle Repubbliche Socialiste nel dicembre 1991. Quanta rabbia assistere allo smantellamento dello stato sociale che pure l’inefficiente apparato sovietico era stato in grado di garantire a milioni di persone – certo senza “libertà” ma non senza pane – provocato dalla “shock therapy” voluta dai Jeffrey Sachs – che oggi pontificano sulla fame e la povertà nel mondo – e dal Fondo Monetario Internazionale (la mortalità in Russia aumentò vertiginosamente in quegli anni, accanto alla povertà e alle disuguaglianze di reddito).
I post-comunisti italiani appresero la lezione sbagliata. Si lasciarono convincere che, avendo il capitalismo “vinto” la battaglia dei sistemi antagonisti, bisognava puntare tutto sulla crescita, che avrebbe portato di più a tutti, dimenticando di curarsi dell’equità della distribuzione. Acriticamente aderirono all’Europa di Maastricht che, di lì a poco, avrebbe teorizzato l’idea di “re-includere” gli ex-satelliti sovietici già pronti sulla strada del libero mercato e della “democrazia”. Ancora ricordo le parole profetiche di Paul Krugman che in quei primi anni Novanta riferiva quanto gli aveva suggerito un amico che ben li conosceva: “gli europei dell’est si sono liberati dei regimi comunisti, ora potranno finalmente tornare a covare il loro ideale autoritarismo fascista”.
A Gorbaciov, per quanto fatto, il Comitato del Nobel di Oslo assegnerà il Premio per la pace nel 1991. E oggi tutti rivediamo con commozione l’apparizione di Micha e Raissa al Festival di Sanremo del 1999 nel quale la loro presenza bonaria fu accolta con affetto e simpatia, lo sguardo attento di Michail a quella platea a lui così lontana, lui così conscio delle grandi differenze e della comune, possibile, aspirazione ad un mondo che rendesse compatibili le differenze di regimi, di sistemi e di stili di vita. Gorbaciov ha fallito, si dice oggi. È vero, ma ha reso possibile un cambiamento che poi non è andato nella direzione che né lui, né i suoi sostenitori avrebbero desiderato. Tra i quali c’erano i tanti comunisti italiani che, tuttavia, furono tra i primi a dimenticare proprio in quegli anni in cui dall’Europa avrebbe dovuto provenire un messaggio ben diverso: vi accoglieremo, sapendo che dovrete cambiare, senza imporre nulla, se non l’adesione all’idea di democrazia e libertà. Non fu quello il segnale, né la politica che ne seguì che fu, invece, sempre all’insegna del “fate come noi, fate come vi diciamo e poi si vedrà”. Di cui oggi patiamo, noi e loro, le conseguenze.